QD7 - Didattica del Latino - page 21

Capitolo 2 
La storia dell’insegnamento del latino
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todo, senza libri, senza grammatica né regole, senza bacchettate e
senza lacrime, io avevo imparato il latino, e un latino puro come
quello del mio maestro”.
Al padre, infatti, che non era un uomo colto, ma che era alla ricer-
ca del miglior metodo di educazione per il figlio, qualcuno aveva
spiegato che “il tempo che noi impiegavamo a imparare queste
lingue … era la causa per la quale non potevamo attingere la gran-
dezza d’animo e la sapienza dei Greci e dei Romani”. Per questo
motivo il nobiluomo aveva assunto un precettore tedesco che non
sapeva il francese e gli aveva affidato il bambino, con la condizione
precisa che gli parlasse sempre in latino. Inoltre aveva affiancato
a questo altri due maestri che dovevano sottostare alle stesse con-
dizioni, per giunta lui stesso, la madre e i domestici, opportuna-
mente addestrati per le mansioni di loro competenza, dovevano
sempre e solo parlare in latino con il piccolo. Il risultato fu che
“Tutti ne trassero uno straordinario beneficio: mio padre e mia
madre impararono il latino abbastanza per capirlo e acquistarono
una competenza sufficiente per servirsene al bisogno, così come
una parte della servitù. Insomma latinizzammo così bene tutti a
tal punto che anche i villaggi dei dintorni ne furono contagiati e
che vi si trovano ancora adoperati e radicati nell’uso dei termini
latini per indicare artigiani e utensili”. Quando poi il ragazzino
fu mandato al famoso Collège de Guyenne, considerato uno dei
migliori, “ma pur sempre un collegio! – scrive Montaigne – Il mio
latino peggiorò immediatamente e ne ho perduto poi completa-
mente la pratica, per mancanza di abitudine” (
Saggi
,
libro I, cap.
25; Boyd, 1960, pp. 245-247).
Ed era pur sempre un collegio l’Accademia di Torino, dove due se-
coli dopo, fu “ingabbiato” dallo zio Vittorio Alfieri alla tenera età
di nove anni e mezzo: “Tirandomi così innanzi in quella scoluccia,
asino, fra asini, e sotto un asino, io vi spiegava il Cornelio Nipote,
alcune egloghe di Virgilio, e simili; vi si facevano certi temi sgua-
iati e sciocchissimi; […]; l’emulazione mi spronava finché avessi o
superato o agguagliato quel giovine che passava per il primo; ma
pervenuto poi io al primato, tosto mi rintiepidiva e cadea nel tor-
pore. Ed era io forse scusabile, in quanto nulla poteva agguagliarsi
alla noia e insipidità di così fatti studi. Si traducevano le Vite di
Cornelio Nipote, ma nessuno di noi, e forse neppure il maestro,
sapeva chi si fossero stati quegli uomini di cui si traducevan le vite,
né dove fossero i loro paesi, né in quali tempi, né in quali governi
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