Metodi e strumenti per l’insegnamento e l’apprendimento dell'italiano
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a partire dall’introduzione dell’istruzione obbligatoria fino
agli anni Settanta del ’900.
Una lettura, anche rapida, dei programmi previsti per la
scuola obbligatoria a partire dalla Legge Casati del 1859,
fino al 1963, l’anno della riforma Gui e dell’istituzione della
scuola media unica e obbligatoria, ci mostra inequivocabil-
mente che, sia pure con tutti i cambiamenti del caso, per più
di 80 anni la scolarizzazione di base non solo si poneva come
compito, ovvio, quello dell’alfabetizzazione e della prepara-
zione di un cittadino-lavoratore in possesso degli strumenti
fondamentali, ma aveva anche un forte valore di riferimento
nei confronti della costruzione “nazionale”. In questo senso
l’apprendimento della lingua, che materna non era se non
per una esigua minoranza, il famoso 10% circa citato a più
riprese da Tullio De Mauro, era visto come strumento in-
sieme di alfabetizzazione e di acculturazione. Si imparava a
leggere e scrivere in italiano, e anche si imparava l’italiano
essenzialmente (soprattutto nel primo periodo) attraverso i
testi scritti.
La lingua materna, per definizione, la si acquisisce in fami-
glia: e la lingua materna è stata, per percentuali man mano
decrescenti ma ancora molto consistenti fino a tutti gli anni
Sessanta del Novecento, il dialetto. Ciò ha avuto due impor-
tanti conseguenze, che sono state ben studiate dai linguisti e
in particolare dai sociolinguisti. Fino a cinquant’anni fa l’am-
bito linguistico era caratterizzato:
>
dalla relativa “stabilità” dell’italiano, lingua scritta, ma
poco parlata;
>
dall’apprendimento, a scuola, di una lingua
standard
for-
male, destinata a essere letta e scritta, e quindi con caratte-
ristiche molto rigorose e una definizione altrettanto rigida
di correttezza, a cui corrispondevano anche scelte canoni-
che di un certo tipo.