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11

Comprensione di testi

nome in (quasi) partenza l’hanno cambiato anche i due fratelli più famosi

del Novecento italiano, Giorgio de Chirico e Alberto Savinio, l’uno pittore,

l’altro talento più poliedrico. E il minore, Alberto, lo cambiò perché, quan-

do cominciò a lavorare a Parigi, il fratello era già conosciuto. Da dove, poi,

lo pseudonimo saltasse fuori, non si sa con certezza. (…) Oggi Ruggero

Savinio (che è figlio di Alberto Savinio e ha voluto, invece, conservare il

nome paterno) è un pittore affermatissimo: s’è appena chiusa la mostra

dei suoi ultimi lavori, a Montecitorio. (…) C’era un “understatement” in

Savinio senior, un metter la professione in prospettiva, che il figlio ricor-

da con gratitudine: “Un pomeriggio nello studio di mio padre, avrò avuti

sedici anni, lui parla di me con un amico in visita. Gli dice: “Vorrei che

Ruggero diventasse un grande uomo. O almeno un grande pittore.” Mi

ricordo la frase per quell’“almeno”, una specie di viatico…”

M.G. Minetti,

Destino d’artista

, “Specchio”, 21/4/2001

Il discorso di Minetti suscita alcune riflessioni e suggerisce alcune

considerazioni: tra quelle qui riportate, UNA CONTRADDICE quanto

si afferma nell’articolo. Quale?

A. Un nome famoso costituisce un peso certamente, ma non si può

escludere che offra anche alcuni vantaggi, non ultimo quello di smi-

tizzare il valore della fama

B. Con un padre famoso, poco o molto che sia, ai nostri giorni un figlio

deve essere dotato di determinazione e coraggio per seguire la mede-

sima strada

C. Il nome di famiglia, se noto, è stato per secoli un titolo di credito da

esibire; dal Romanticismo in poi è diventato un’eredità da rifiutare

D. Da circa duecento anni figli, fratelli e nipoti si tengono rigorosamente

alla larga dalla professione di genitori e parenti, mentre era frequente

nel passato che figli, fratelli e nipoti coltivassero l’arte per cui i loro

familiari erano famosi

16)

“Dal fatto che le opinioni si rivelano tutte ugualmente confutabili o

sostenibili, Socrate non trae, come Protagora, la convinzione che la dialet-

tica abbia il compito di persuadere o dissuadere in merito all’una o all’al-

tra, indipendentemente dal vero, cioè egli non ne evince la tesi che tutte le

opinioni sono vere, bensì, al contrario, che esse, in quanto possono essere

tanto vere quanto false, non hanno quel carattere di sapere stabile proprio

dell’universale, cioè della scienza. Il compito della dialettica diventa un

compito critico: essa non deve mettersi al servizio di questa o di quella opi-

nione, per sostenerla o per demolirla, ma deve invece mettere alla prova