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Parte I - Prerequisiti
La scienza deve ancora trovare la risposta a un mistero ancor più grande del
Disco di Nebra: per quale meccanismo biologico il tempo passa lentamente in
gioventù – dando la sensazione che la vita sia lunga – e si mette a correre con
l’età adulta? In compenso, sappiamo che il corpo umano è pieno di “crono-
metri” cellulari, regolati chimicamente: sono la dopamina e altre molecole, a
far sì che il fluire del tempo paia interminabile durante un convegno sui tassi
d’interesse argentini e che invece voli via, in una notte d’amore. Ma il più spet-
tacolare degli enigmi, rimane quello della freccia del tempo. Ai nostri occhi
– giovani o vecchi che siano – il tempo dà sempre la sensazione di un flusso,
che va diritto lungo la traiettoria passato-presente-futuro. Peccato che, in
fisica, questo tempo unidirezionale non abbia significato. “Passato, presente e
futuro sono solo illusioni”, scrisse Einstein a un amico. Secondo la Relatività
speciale, due eventi che possono apparire simultanei da una visuale, possono
non esserlo da un’altra. “La conclusione più immediata – osserva il divulgato-
re Paul Davies – è che sia il passato che il futuro siano prefissati. Per questo
motivo, i fisici concepiscono il tempo nella sua interezza: un “tempo-rama”
analogo a un panorama, con tutti gli eventi passati e futuri osservati insieme”.
La percezione del tempo è soggettiva, e pure illusoria. Per di più, secondo la
teoria della gravità quantistica, lo spazio e il tempo non sarebbero continui
come ci appaiono, bensì avanzerebbero in pezzi “discreti”. Un po’ come la
musica che ascoltiamo: è codificata in blocchi di bit, ma la udiamo come una
cosa continua.
Secondo il testo del brano, la percezione del tempo come più lento
durante la giovinezza e più veloce durante l’età adulta è dovuta:
A. a un fenomeno quantistico denominato Futurama
B. all’invecchiamento del sistema cerebrale
C. ad alcune molecole che fungono da cronometri chimici
D. alla sensazione di unidirezionalità del tempo: passato – presente – futuro
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“Una volta era semplice. Prima che i romantici esaltassero la “sin-
golarità” del creatore, l’arte era spesso un mestiere di famiglia e i figli di
Johann Sebastian Bach non avevano paura del confronto col padre met-
tendosi a fare i musicisti, Bernardo Bellotto andava a bottega da suo zio
Canaletto e si firmava come lui (non per dolo, ma per una questione di
“ditta”), i fratelli Carracci affrescavano assieme ettari quadrati di palazzi
romani. Finì tutto nell’Ottocento. Non finirono le famiglie di artisti, finì la
fabbrica d’arte familiare: padri, figli, fratelli cominciarono a tenere ciascu-
no al proprio nome, alla propria personalità. Se in famiglia qualcuno rag-
giungeva un’eccellenza indiscussa, gli altri ne erano intimiditi, misurarsi
col gigante faceva paura. I fratelli ormai cambiano nome in partenza. Il