Principi di Microbiologia Medica - page 25

Capitolo 18 
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MICOBATTERI
malato. La
lebbra lepromatosa
o tuberosa o nodulare (più
contagiosa perché è presente una scarsa risposta immuni-
taria) è caratterizzata dalla comparsa sulla faccia e sul lato
estensorio degli arti, di macchie eritematose
/
pigmentate
che, lentamente, si trasformano in noduli (
lepromi
) isola-
ti, poi confluenti, interessanti spesso anche le mucose, cui
fanno seguito ulcerazioni e necrosi con frequenti estese di-
struzioni di tessuti, mutilazioni, riassorbimento di falangi,
caduta dei peli (non dei capelli). Nella
lebbra tubercoloide
o nervosa
(in presenza di un’elevata risposta immunitaria,
che ne riduce la contagiosità) alle chiazze eritematose se-
guono formazioni granulomatose, localizzate specialmente
lungo i tronchi nervosi cui conseguono disturbi della sen-
sibilità termica, dolorifica e tattile (i più colpiti sono i nervi
auricolare, cubitale e peroneo) che qualche volta si localiz-
za nei polmoni con infiltrazioni simili a quelle tubercolari
o nell’intestino e può interessare fegato, milza, testicoli ed
articolazioni.
L’uomo infetto è il
reservoir
epidemiologicamente più si-
gnificativo del batterio, anche se
M. leprae
può sopravvivere
alcuni giorni nell’ambiente (e costituire un’accidentale fonte
di infezione) e se armadilli selvatici (soprattutto l’armadillo
a sette fasce o
Dasypus septemcintus
) infetti da micobatteri
indistinguibili dal bacillo di Hansen sono stati repertati in
alcuni Stati meridionali degli USA (Arkansas, Louisiana, Mis-
sissippi, e Texas) con la possibilità di trasmissione all’uomo
(documentata per la prima volta nel 1975) in conseguenza
della caccia all’animale, stimolata dalla richiesta di armadilli
imbalsamati e di oggetti di pelle di armadillo (secondo alcu-
ne osservazioni, anche altri animali come il bufalo indiano
ed alcune scimmie – scimpanzè, cercopitechi e macachi –
potrebbero risultare naturalmente infetti da
M. leprae
).
La malattia si trasmette soprattutto per contagio
interumano e si pensa che la trasmissione per via ae-
rogena (goccioline di Pflugge) sia più rilevante di quel-
la attraverso soluzioni di continuo della cute.
M. leprae
è generalmente localizzato nel citoplasma dei macro-
fagi, all’interno dei quali si moltiplica, e dove, all’os-
servazione microscopica, appare in piccoli ammassi
di bacilli acido-resistenti disposti parallelamente che,
per la forma grossolanamente tozza del batterio, sono
detti «a mazzo di sigari».
M. leprae
è un batterio che si
moltiplica (obbligatoriamente?) a livello intracellulare
e non è coltivabile in terreni abiotici (è possibile, inve-
ce, infettare colture di cellule
in vitro
). La trasmissione
sperimentale dell’infezione, mediante inoculazione di
materiali provenienti da lesioni cutanee o mucose, si
può ottenere, oltre che nell’armadillo (che è un ani-
male riscontrato naturalmente infetto e dove si ritie-
ne che l’infezione abbia successo per la temperatura
corporea dell’animale relativamente bassa) anche nel
topino da laboratorio (
Mus musculus
) inoculato nella
zona plantare di una zampa dove si sviluppa una le-
sione infiammatoria essudativo-granulomatosa, dalla
quale l’infezione può essere trasmessa serialmente ad
altri topini.
La
diagnosi
di lebbra è in genere clinica, ed è con-
fermata batteriologicamente dal reperto microscopico
di bacilli acido-resistenti nel citoplasma dei macrofagi
(cellule leprose) presenti nei materiali provenienti dai
granulomi cutanei o mucosi (è importante tener pre-
sente che alcuni micobatteri non-tubercolari possono
provocare lesioni cutanee grossolanamente simili, per
evitare di far diagnosi di lebbra in questi casi). La ricerca
di anticorpi (IgM) contro l’antigene glicolipidico PGL1
(
phenolic glycolipid-1
), largamente rappresentato alla
superficie di
M. leprae
, può essere di ausilio diagnostico.
La
terapia
della lebbra ha ottenuto in questi ultimi
anni notevoli successi con l’introduzione della terapia
multipla che prevede la somministrazione giornalie-
ra di 50 mg di clofazimina e 100 mg di dapsone (dia-
mino-difenilsulfone), insieme alla somministrazione
mensile di rifampicina (600 mg) e ancora clofazimina
(300 mg), per almeno due anni. Il regime terapeutico è
in grado di eliminare abbastanza rapidamente i bacilli
leprosi dalle lesioni cutanee, eliminando la infettività
del paziente e può portare (nelle infezioni trattate a
partire da una fase precoce) alla eradicazione dell’in-
fezione in 15-20 mesi.
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Mycobacterium ulcerans
Si tratta di un micobatterio a crescita lenta isolato nel
1948 nel distretto di Bairnsdale nella zona sud-orientale
dell’Australia, da pazienti con ulcere cutanee necrotizzanti
(patologia nota anche come
ulcera di Bairnsdale
). Succes-
sivamente si capì che l’affezione era identica ad un’analoga
patologia nota in Africa già da tempo (anche se ad eziologia
ancora ignota) e denominata «
ulcera di Buruli
» da un’area
dell’Uganda dove la malattia era particolarmente frequente.
La denominazione di «
ulcera di Buruli
» è quella usata oggi
correntemente a livello internazionale. L’
ulcera di Buruli
è presente anche in molte aree tropicali e subtropicali, in
Africa, Centro e Sud America e Sud-est asiatico, dove l’in-
fezione è particolarmente frequente in prossimità di acque
stagnanti (la sorgente dell’infezione non è nota). Le lesioni
ulcerose, inizialmente interessanti solo la cute, possono successivamente estendersi lungo la fascia muscolare (fascite
necrotizzante), raggiungendo il tessuto muscolare e osseo.
Le ulcere sono solitamente indolori (per la distruzione delle
terminazioni nervose sensitive) e ciò, può occasionalmente
porre il problema della diagnosi differenziale con un’infezio-
ne da
Mycobacterium leprae
. La diagnosi si basa sul quadro
clinico e sul reperto di bacilli acido-resistenti nell’essudato
gelatinoso delle lesioni ulcerose. L’isolamento colturale e la
successiva identificazione del micobatterio, mediante inda-
gini biochimiche, sono in grado di risolvere definitivamente
il quesito diagnostico.
Il trattamento prevede l’escissione chirurgica del tes-
suto necrotizzato ed il trattamento combinato con diversi
farmaci antimicrobici (isoniazide e streptomicina, oppure
ossitetraciclina e dapsone, o rifampicina, cotrimossazolo e
tetracicline).
Nelle nostre aree non sono segnalati casi di infezione da
M. ulcerans
ma, anche in considerazione del sempre cre-
scente volume di scambi intercontinentali, non è possibile
escludere una sua futura comparsa anche in zone preceden-
temente indenni.
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