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Roma. Dallo stato-città all’impero senza fine
Un eroe solitario e l’invenzione della tradizione
Le leggende, costruite secoli dopo, sui primissimi anni della repubblica di Roma sono
ricche di narrazioni relative a straordinari atti di eroismo compiuti da singoli Romani in
difesa del nuovo ordinamento statale. Il soldato Orazio Coclite è uno dei più noti fra
questi eroi. Secondo la tradizione, ripresa e amplificata dallo storico Livio, egli difese
da solo il ponte Sublicio sul Tevere dall’assalto degli Etruschi del re Porsenna, che
subito dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo tentarono di riportare la monarchia a
Roma. Fenomeni di invenzione delle tradizioni per legittimare o dare maggior lustro
a un sistema di potere o a un modello istituzionale di stato sono assai frequenti nella
storia. Il caso di Roma è in questo senso emblematico per l’ampiezza e l’importanza
del disegno propagandistico di cui i miti delle origini costituiscono parte essenziale.
All’avvicinarsi dei nemici (Etruschi) gli abitanti delle campagne riparano in città,
e la città stessa viene predisposta per la difesa. Le mura e il Tevere parevano
costituire una sicura protezione da ogni lato, ma il ponte Sublicio stava per
aprire la strada ai nemici, se non fosse stato per il valore di un uomo, Orazio
Coclite: quel giorno la fortuna di Roma trovò in lui un baluardo. Egli era posto
a guardia del ponte, quando vedendo il colle Gianicolo preso con improvviso
assalto e i nemici correre giù velocemente, mentre la massa dei Romani in
preda al panico abbandonava le armi e le fila, si impegnò da solo a trattenerli
uno per uno, e piantandosi davanti (ai fuggitivi) e scongiurandoli in nome degli
dèi e degli uomini sosteneva che la loro fuga era inutile poiché abbandonavano
le difese: se (fuggendo) avessero lasciato libero alle loro spalle il passaggio del
ponte, rapidamente vi sarebbero stati più nemici sul Palatino e sul Campidoglio
che non sul Gianicolo. Perciò li incitava e li spronava affinché spezzassero (alle
sue spalle) il ponte col ferro, o col fuoco, o con qualsiasi altro mezzo riuscissero
a trovare; egli frattanto avrebbe trattenuto l’impeto dei nemici, fino a quando
umanamente era possibile resistere da parte di un uomo solo. Avanza quindi
sulla testa del ponte, ed offrendo uno spettacolo ammirevole, in mezzo ai com-
pagni che mostravano le spalle abbandonando la battaglia, rivolte le armi per
affrontare il combattimento a corpo a corpo, meravigliò (anche) i nemici con la
sua incredibile audacia. Due uomini tuttavia vi furono che il senso dell’onore
trattenne con lui, Spurio Larcio e Tito Erminio, entrambi personaggi illustri per
stirpe e per le gesta (compiute). Col loro aiuto per un po’ di tempo sostenne
la prima minacciosa ondata (di nemici) e il momento più critico della lotta; poi,
quando quelli che tagliavano il ponte li richiamarono indietro, non rimanendo
ormai che uno stretto passaggio, li spinse a ritirarsi al sicuro. Volgendo quindi
intorno minacciosamente il fiero sguardo all’indirizzo dei capi degli Etruschi,
ora li sfidava ad uno ad uno, ora li scherniva tutti quanti: «Schiavi di re superbi,
immemori della propria libertà, assalitori di terre altrui». Quelli (gli Etruschi) esi-
tarono a lungo, guardandosi l’un l’altro prima di iniziare il combattimento. Infine
la vergogna li fece muovere all’attacco, e, levando grida da ogni parte, scaglia-
no dardi contro quel nemico solitario. I dardi si infissero tutti nello scudo, ed
egli non meno ostinato continuava a rimanere davanti al ponte, saldamente
piantato sulle gambe: mentre (i nemici) si accingevano a cacciarlo giù con un
ultimo urto massiccio, il fragore del ponte che crollava e le simultanee grida