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L’educazione è generalmente associata alle buone maniere, al “sapersi com-

portare”, all’essere gentili, garbati, disponibili. Al contrario, la maleducazio-

ne evoca modi grossolani e sgarbati, spesso accompagnati da aggressività

ed egoismo. Nel linguaggio comune il termine “educazione” è infatti uti-

lizzato prevalentemente per indicare la conformità a un insieme di regole

di comportamento socialmente accettate. Questo è ciò che credevo anch’io

prima di diventare madre.

La responsabilità di educare dei bambini mi ha reso subito evidente quanto

limitante fosse questa visione, che confonde la naturale attitudine di una

mente equilibrata, spontaneamente empatica e rispettosa delle “buone ma-

niere”, con il fine stesso dell’educazione, distogliendo dal compito princi-

pale cui, in qualità di educatori, sia genitori che insegnanti sono chiamati:

aiutare i bambini a riconoscere, gestire, esprimere le emozioni. Premessa

indispensabile questa per favorire lo sviluppo cognitivo, l’apprendimento e,

più in generale, la crescita globale dell’individuo come persona.

Oggi, come mai prima d’ora, il compito più importante, e anche il più com-

plesso, che chi “educa” un bambino deve assumersi consiste proprio nell’in-

coraggiarlo a sviluppare quelle risorse emotive che gli consentano di com-

prendere se stesso e ciò che gli accade intorno. Il raggiungimento di questo

fondamentale obiettivo implica un processo di crescita fatto di esperienze

attraverso le quali imparare ad ascoltarsi e a rispettarsi e, di riflesso, ad

ascoltare e a rispettare le altre persone.

In tale prospettiva l’educazione è da intendersi come la capacità di trascen-

dere gli angusti confini di un’esistenza egocentrica e di porsi empaticamen-

te in relazione con gli altri. Piuttosto che insegnare ai nostri bambini le

regole della “buona educazione”, dovremmo aiutarli a coltivare bontà, com-

“Educare”: una parola semplice per

un mestiere complesso

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