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Parte III - Simulazioni d’esame

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Uniti non si ficcheranno nel mezzo di una guerra civile altrui. Noi non mette-

remo soldati sul terreno siriano. Questa non è la guerra fredda. Se la Russia

vuole avere una certa influenza nella Siria del dopo Assad, ciò non danneggia

i nostri interessi». Poi, il 27 settembre, Obama chiama al telefono Hassan

Rouhani, presidente della Repubblica Islamica d’Iran, l’arcirivale dei sauditi.

Lo saluta in farsi - “khodahafez”, che Dio vi guardi. Un tic? Poi comunica al

mondo: «Credo che possiamo raggiungere un accordo complessivo». Ame-

ricani e iraniani, alleati di ferro ai tempi dello scià, riaprono così, per lo scon-

forto di Abdallah – e del premier israeliano Netanyahu – una conversazione

interrotta dal 1979.

Tre fotogrammi. Ma sufficienti a rendere il senso del divorzio che si sta

consumando fra Stati Uniti e Arabia Saudita. E che potrebbe rivelarsi l’esito

meno provvisorio e più profondo del sisma geopolitico che scuote l’ecumene

musulmana e di qui il resto del mondo. Crepuscolo della lunga era inaugurata

dal matrimonio d’interessi – greggio arabo-saudita per protezione strategica

americana – celebrato il 14 febbraio 1945 in Egitto tra Franklin Delano Roo-

sevelt e Abdul Aziz al Saud, fondatore del regno eponimo, a bordo dell’in-

crociatore Quincy, alla fonda nel Grande Lago Salato. Quel patto è stato

l’alfa e l’omega degli equilibri nel Golfo, per riflettere la sua ombra lunga sul

Grande Medio Oriente, dall’Afghanistan al Marocco e oltre. Ha resistito alle

guerre arabo-israeliane e allo shock petrolifero del 1973 e financo al trauma

dell’11 settembre 2001, quando diciannove terroristi, di cui quindici sauditi,

ispirati da un ex intimo di casa reale, si scagliarono contro i simboli dell’im-

pero a stelle e strisce. L’intesa americano-saudita ha permesso di disegnare

il triangolo strategico Washington-Gerusalemme-Riyad, declinazione dei due

interessi vitali che hanno incardinato gli Stati Uniti in Medio Oriente dopo la

guerra fredda: Israele e petrolio. Senza il perno saudita nel Golfo, anche il ben

più radicato asse israelo-statunitense, apparentemente inossidabile, minac-

cia di girare a vuoto. Né si tratta solo, come recita la vulgata, del crescente

disimpegno energetico degli Stati Uniti dai pozzi mediorientali, frutto dell’ine-

briante effetto degli idrocarburi non convenzionali oggi disponibili nel cortile

di casa nordamericano. E nemmeno del contenimento della Cina battezzato

“pivot to Asia”, tuttora vago. A incrinare quella storica intesa sta soprattutto

contribuendo lo tsunami che da tre anni agita lo spazio del Mediterraneo

allargato. Il dietrofront americano sulla Siria sigilla l’abdicazione dell’America

al rango di arbitro del Medio Oriente e illanguidisce alquanto la sua residua

influenza planetaria. Gli interessi globali di Washington ne eccedono di molto

la potenza.

Non riuscendo a incrementare la seconda, e trovando crescenti resistenze

all’uso di risorse altrui per fini propri, deve ridurre i primi. Crisi di egemonia

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